Una Pistola al Luna Park
di Monica Messa
Edizioni RP libri, s.l. 2024

Poesia di disagio, di ricordi, di sensazioni, di flash in una miscela che sta per esplodere. Nomen omen si addice al titolo della silloge, titolo di per sé singolare e ad un primo acchito spaesante. Si tratta di undici storie o capitoli.
Un puzzle fatto di tessere a volte sconnesse, inquietanti, ma che rimangono impresse nella loro arditezza, nelle metafore inusuali, nei paragoni, nelle analogie. Poesia di inciampi, di chiodi che rendono scabro e irto il cammino anche per il lettore attento, con una dovizia, specie nelle prime sezioni, di termini gergali, esotici, settoriali e perciò spesso fuori dall’uso comune e dai canoni di una poesia dalla accessibile liricità. Eppure, qualche spiraglio appare quando la poetessa si lascia andare e cerca uno sbocco alla «rabbia bastarda» che la opprime chiedendole di trasformarsi in POESIA (Trasformati, trasformati, p.43).
L’uso di eponimi e soprannomi, di termini misti tra il quotidiano e il letterario, tra il sacro e il profano, non fa che evidenziare la padronanza tecnica e la potenza espressiva di chi scrive. È anche una poesia di odori, di sapori, di tatto e di contatto, di vista, di sinestesie, come se tutti i sensi saltassero fuori scattando, come le figurine di una volta, da basi di cartoncino emergenti come molle.
La galleria di personaggi che popolano il libro con le loro piccole vite (tra degrado e disagio, soprattutto il genere femminile, spesso bambine o fanciulle molto giovani), ci fa girare in una giostra senza fine e ci induce a riflettere sulle variabili che l’esistenza comporta.
Immagini familiari reali, di fantasia o di sogno convivono in un orizzonte dalle tonalità cupe, opache, talvolta sospese, in una composita disarmonia dove vita e morte, morte e vita coesistono (v. i capitoli Samir e La bambina di rame e di miele) .
Dove la poetessa esce un po’ più allo scoperto è nel capitolo settimo dal titolo La carpa nel castello. Qui simbolismo ed autobiografia, giocano a rincorrersi e la scrittura dice non dicendo o alludendo (v. Amo i luoghi che non amo…).
Stupenda è la metafora del nuovo giorno che «si scuce e ricuce». E non manca qualche concessione lirica (Nel sonnocalorecorpo , ibidem ).
Mi chiedo se stringere i condotti da cui escono le parole non sia il segno di un votarsi all’essenzialità o magari dell’incedere del tempo o di una fase della vita che ti porta ad un ridimensionamento grazie ad un’autoanalisi sincera e talvolta spietata (Amo i luoghi che non amo).
Le storie si svolgono in un luogo che appare sospeso definito «un piccolo cosmo prigione» dove «la gente […] sceglie da sempre di invecchiare fra il partito e il barbiere o a fare palle di nuvole in cortile» (La gente dalle mie parti, p.85). Se non è questa liricità.
E proprio nel decimo capitolo, Un paese, si afferma pavesianamente che «un paese ci vuole, un paese per morire da soli» (Nel mio paese c’è un binario, p. 83).
La semplicità fatta di precisione, di concretezza, di quotidianità, ma anche di riflessione delle prime prove poetiche della Nostra, permane in un certo qual modo in questa silloge, pur tra le infinite tessere di cui è composta.
Nell’Epilogo tutto si manifesta nell’immagine del «mantello da fata» di un ultimo Carnevale «appeso davanti alla porta /come santi senza calendario».
Qui fa a capolino una sorta di ermetismo di fondo e un miscuglio di vite altrui e situazioni personali che ci portano in atmosfere oniriche, ma anche in una specie di limbo legato al passato-presente e ad un certo punto appare, come in un’alba, un colore che sembra proprio quello del sogno e dei fantasmi: «Bianco il cielo, quasi candido,/ lana, latte, monastero». Nel finale la quotidianità si manifesta con «le auto che beccheggiano nel parcheggio nero /fra fustini vuoti e scatole di rigatoni. / Fra ciò che resta dentro e ciò che porta fuori.» (Rimane p.89).
Potrei prendere a prestito le parole di Alessandro Piperno quando definisce l’ultimo romanzo di Pietro Grossi, Uno di noi. «un soliloquio polifonico» (v. LA LETTURA del 12 Gennaio 2025), per tirare finalmente le somme a partire dal titolo, Una pistola al Luna Park, ricco di sensi di simboli e di imprevedibili implicazioni.
E al di là di ciò che afferma Bice, uno dei tanti personaggi che popolano questo libro, nel VI capitolo che porta il suo nome («Ho la felicità inceppata/come una pistola al Luna Park») mi piace concludere dicendo: “Più non capisco e più mi accanisco”.
Giulia Notarangelo