Con l’orizzonte portatile nella borsa

Monica Messa, “Una pistola al luna park”

di Antonello Bifulco

Riporto sul mio blog il meraviglioso articolo di Antonello Bifulco, riportato oggi nel numero di Aprile 2025 di Fare Voci.
Fare Voci è una rivista italiana di poesia tra le più vive e apprezzate del panorama contemporaneo, capace di intrecciare con rara sensibilità voci emergenti e maestri, riflessione critica e apertura al dialogo tra le arti. Un luogo prezioso per chi cerca poesia autentica e vibrante.

Per leggere direttamente la rivista CLICCATE SU QUESTO LINK

nota di Monica Messa

Lawrence Ferlinghetti nel suo “Fotografie del mondo perduto” si raccontava in tutta la sua ironia e leggerezza, con una buona dose di nostalgia, con lo sguardo di chi sa tenere a mente il passato ma allo stesso tempo si proietta in avanti senza opporsi. Monica Messa nel suo nuovo e brillante libro di poesie “Una pistola al Luna Park” ricorda i passi del maestro della Beat Generation, poesie che nascono da quel che è stato pensando al passo successivo. C’è oltre la porta l’ignoto verso il quale si deve guardare con fiducia, un futuro da accogliere sapendo che abbiamo vissuto dentro di noi storie bellissime.
“Una pistola al Luna Park” ti accoglie tra le maglie di luoghi che si mescolano ad immagini sognanti dove gatti marmorizzati fanno da sfondo a portatori di kebab a domicilio e le persone che vivono queste vie, tagliano la testa ai gelsomini poiché da qualche tempo non parlano più con loro. È un viaggio questa poesia attraverso capitoli brevi ma intensi, dieci capitoli con un Epilogo che è poi la summa di ciò che Monica ci ha raccontato lungo tutte le sue profonde e sentite pagine.
Capitoli che sono un luogo, un nome, un dolce ricordo che non c’è più, titoli che richiamano un paese, un amore, pane fumo, Bice e Geremia Merdaoro. Persone, anime che abitano viali aperti in fiduciosa attesa: “Ha le scarpe al contrario/ ma non le importa./ Per seguire le formiche non serve equilibrio” e poi “Io continuo ad incontrarti./ Chissà se sei da qualche parte”, un’attesa che sta in equilibrio con il tempo che corre, con i suoni della vita che si fanno assordanti anche dentro le certezze della gente.
Monica ci prende per mano portandoci nei corridoi della mente, lasciandoci cadere nei luoghi del passato, nelle paure, ci ricorda che la felicità si può inceppare come una pistola al Luna Park dieci colpi, cento lire, cento lire che erano il prezzo della libertà, erano i suoni e l’afa di una città sul mare, quei momenti che decidi di non raccontare a nessuno, quei momenti che come la sabbia della scorsa estate, nascondi nella borsa.
Monica riesce nell’intento di farsi domande che non ammettono replica, domande a cui le risposte non daranno mai una verità assoluta, ci racconta un vissuto che è certezza o che alla certezza si avvicina, “Ancora non sa che le vespe/ ricompensano i fichi con la vita”, questa sua poesia è un viaggio attraverso l’ironia, un’ironia gentile che ti permette di vedere il cielo in maniera diversa e capire che “oggi non è sincero“, ironia come spazio di separazione da ciò che può far male, o che male lo ha già fatto, ironia ad accarezzare per ricordarti comunque che dopotutto “il cielo non terrà il broncio a lungo” e che “il corpo è il teatro dove ridono i sensi”.
E allora ci muoviamo in queste pagine sicuri di trovare momenti di sbandamento, baratri che ci permettono di guardare oltre le cose che pensavamo dimenticate, di trasformare la rabbia bastarda in poesia, un passo dopo l’altro nel libero arbitrio di sapere che sbagliamo ogni giorno ma che, ogni giorno, avremo l’opportunità di aiutare quelle mani di bambina, così piccole, “che bastano appena a spingere barchette di giornale“, aiutarle a capire che questo mondo forse è troppo grande per lei, per il suo sorriso in debito di luce.
La poesia, questa nuova poesia di Monica Messa sfocia tra le pieghe del nostro vivere come fa un fiume in piena, è un soffermarsi dentro l’anima delle cose guardandole attraverso, è un attraversare veloce come fa la risacca, ti porta al largo oltre la linea dell’orizzonte chiedendoti poi di decidere se viverci dentro o saltarne fuori.

Dal libro:

Lungo il Mare degli Umori
i grattacieli sono cresciuti in abbondanza.
Fra le pieghe della tunica,
prati di asfodelo
celano gli aloni dei tuoi long drinks.

Samir, ex-infante demiurgo,
veste di bianco
e porta kebab a domicilio.
Non accetta mance, solo bignè.

Il suo dolore puzza,
lo senti da lontano,
puzza di levante e di randagio
di mancanza e di lattine vuote.

Avanza. Tu
accendi un’altra sigaretta.

*

La bambina di rame e di miele
appende foglie alle orecchie
e si sente una regina.

Ancora non sa che le vespe
ricompensano i fichi con la vita.

*

Sedici anni il prossimo dicembre.
Distesa al buio nel granaio,
fuochi d’artificio
sulle palpebre schiacciate,
le scarpe di vernice nuove,
i talloni scorticati,
ridevi alle sue battute sconce.
– È vietato baciare la Regina!
sussurravi.

La Luna del Cervo era alta,
alta la tua scollatura,
il mascara calato.

Rosa di Spagna ti chiamava
tua madre, ma avevi un’anima
di pan bagnato, Geremina
e l’oro dei campi più non ti si addice.

Come magma la dose nelle vene.
Ti arrendesti sognando un lieto fine.

*

Inchiodata a una bilancia
o a passo silenzioso e svelto
fra scaffali e lattine

(dove il cielo non tiene il broncio a lungo)

con l’orizzonte portatile nella borsa,
violacciocche nella scollatura,
e un destino di cartapecora in tasca,
mangiava pane e fumo.

*

Troppo grande questo mondo
per le tue mani, bambina,
bastano appena appena per spingere
barchette di giornale.

Un passo, dall’asfalto alla sabbia.
Sorridi in debito di luce,
capelli nuovi di chemio
e il libero arbitrio in una falange.

*

Bice scrive
e quando scrive è come un ricamo
fitto fitto di parole
scrive diari, poesie, preghiere,
piange per un pino caduto.

A fine agosto, Monopoli è una brace.
L’afa si addensa
filtra dai muri nei palazzi.
La sera, ghiaccio e anguria nelle ceste,
si va al mare. Ma Bice è a casa.
Chissà a cosa pensa,
se si massaggia le caviglie bianche
se gratta la nuca di Nerone
se legge a bassa voce oppure prega.
Un colpo al portone, secco, uno solo.
Un cacioricotta galeotto
e un breve messaggio.
Bice non lo dice,
ma la sua risacca si fa mare.

*

Io lo so com’è
quando lasci una lista a metà,
una matita spuntata
sul comodino,
un pacco di pasta
aperto e riposto
senza sapere
che stavi per mangiarla
per l’ultima volta.

E so com’è
ritrovare quei gesti interrotti,
i mozziconi nel posacenere,
un abito nuovo nell’armadio
perché non si sa mai,
una rosa schiacciata
fra le pagine di un libro,
è la pena di una carezza incompiuta.

*

(E continuo a incontrarti.
Alla guida di una piccola utilitaria blu
mentre attraverso la strada,
in coda al supermercato sotto casa,
a scuola con nipotini non tuoi.

Continuo a incontrarti.
I tuoi occhi in una mia fotografia,
abbronzato, con le camicie stirate e morbide,
le tue dita lunghe.

Credo faccia parte del pacchetto.
Io continuo a incontrarti.
Chissà se sei da qualche parte).

*

La gente dalle mie parti
sceglie da sempre
lo stesso modo di invecchiare,
sulle sedie a mezzo cerchio
fra il partito e il barbiere
o a fare palle di nuvole in cortile.

Non hanno più guerre da raccontare,
parlano della pioggia attesa,
del vino nuovo,
di una cova di bengalini in gabbia.

Intervista a Monica Messa:

C’è una pistola, un Luna Park, ci sono personaggi e luoghi che si aprono in queste tue pagine. Cominciamo dal titolo, perché “Una pistola al Luna Park” e come nasce questa raccolta?
“Una pistola al Luna Park” è un titolo nato da uno scarto emotivo, da un cortocircuito di immagini. È un omaggio implicito al Luna Park di Ferlinghetti, a sua volta evoluzione della terra desolata di T.S. Eliot, cui Ferlinghetti non ha mai nascosto il debito: ammise persino di averlo copiato, usandolo come ispirazione. Nel poemetto di Eliot convivono voci diverse, appartenenti a persone diverse, proprio come in questo libretto, dove prende forma un paese e i suoi abitanti. Ognuno di loro vive un disagio, è inceppato, in cerca di una zona franca. È una raccolta corale, nata nel corso degli ultimi anni.
Sono stati anni difficili: una pandemia, la crisi climatica, le guerre sempre più vicine, la violenza alla porta accanto. Ho dato dei volti a questo disagio, talvolta anche un nome e forse un modo per sublimarlo.

Luoghi, nomi, paesi che si raccontano attraverso il vivere della gente, delle cose, suoni che riportano ad un vissuto di chi scrive. Dieci capitoli ed un epilogo di poesie brevi capaci di donare intensità forti. Luoghi e nomi, quanto di queste due cose è un vissuto personale?
Molto. I luoghi e i nomi che emergono nella raccolta non sono mai puramente inventati, piuttosto sono filtrati da una memoria emotiva: a volte coincidono con luoghi realmente vissuti, altre volte sono deformazioni affettive, scorci mentali, paesaggi interiori. Uno dei personaggi l’ho sognato proprio come l’ho descritto: “Sbatte un occhio di pervinca e muore ancora un po’”.
Con i luoghi ho un rapporto particolare, penso che alcuni restino nostri per sempre, come se lasciassimo un’impronta in essi, al di là del tempo. I nomi, poi, sono piccoli ancoraggi: possono appartenere a persone reali, a frammenti di canzoni, storie ascoltate o immaginate, ma tutti, in qualche modo, mi toccano.
Non cerco mai il realismo, ma qualcosa che suoni vero, che porti vibrazione. Quindi sì, c’è molto vissuto personale, ma smontato, riassemblato, travestito. Come se i luoghi avessero parlato attraverso di me, più che io di loro.

Citi a inizio libro la Cecilia Resio nella sua “Sicché si viaggia immobili, come case cantoniere”; il tuo libro è un viaggio nel Mare degli Umori, tra gatti marmorizzati e gelsomini a cui è stata mozzata la testa, tra i ricordi delle Guide TV e la carne in scatola. Questo tuo libro che viaggio è stato, che viaggio è?
È un viaggio nel contemporaneo o giù di lì, un movimento interiore, laterale, a volte carsico. Non un attraversamento lineare, ma un andare per ritorni, inciampi, accumuli. Il Mare degli Umori è un luogo instabile: cambia colore, densità, profondità. A volte somiglia all’infanzia, altre volte a una cronaca urbana; a volte è un sogno disturbato, altre un archivio affettivo fatto di oggetti minimi, gatti marmorizzati, carne in scatola, Guide TV. Non ho scritto partendo da una meta, ma da una serie di risonanze e vibrazioni.
Il libro si è costruito come un arcipelago: ogni poesia è un’isola che affiora, ma sotto c’è una stessa faglia emotiva, che è il mio modo di stare al mondo, forse di provare a resistergli.

“È veramente questo il tempo sognato dai serpenti?” e “Io lo so com’è/ quando lasci una lista a metà…”, poesie disposte a parlare con te a cercare di darti delle risposte, o a farti domande a volte scomode a volte in attesa di nessuna replica. La poesia come ricerca di qualcosa, la poesia come luogo di approdi inaspettati, per te la poesia deve porre domande o dare risposte?
Credo che la poesia non possa dare risposte o soluzioni e forse nemmeno porre domande dirette. La poesia è più simile a un varco, a una fenditura da cui passa qualcosa, a volte chiarissimo, altre volte solo un’eco. Domande come “È veramente questo il tempo sognato dai serpenti?” non sono lì per ottenere replica, ma per lasciare vibrare una sensazione, per restare sospese.
Mi interessa la poesia che non conclude, ma che apre, che sposta appena qualcosa. Credo che le poesie più vere siano quelle che accettano di non sapere, ma riescono comunque a farsi casa per il dubbio. In fondo, io non cerco né verità né spiegazioni: cerco intensità, risonanza, e quello strano silenzio che arriva quando una parola tocca il punto giusto.

Ci sono ferite che fiorisco in fretta in questo tuo nuovo lavoro poetico, ma sono ferite che fanno ancora male o cosa sono?
Sono ferite che fanno male in modo diverso. Non sono più squarci, ma neppure cicatrici chiuse. Hanno trovato una forma per stare al mondo e questa forma, a volte, è un verso. Alcune sono ferite travestite da immagini: gelsomini mozzati, liste lasciate a metà, carne in scatola. Altre sono più esplicite, ma sempre mediate dallo sguardo della scrittura.
Credo che scrivere sia stato, per me, un modo per guardare queste ferite da un’altra angolazione. E quando le guardi da lì, capita che sboccino non perché non facciano più male, ma perché hanno trovato un ritmo, un respiro, una lingua. Quindi sì, fanno ancora male, ma in un modo che posso finalmente ascoltare e accettare.

Ironia sottile e una poesia che sa coglierti di sorpresa, ingredienti per un’ottima lettura, quanto è importante l’ironia nella vita e nella poesia?
Per me l’ironia è uno stile di vita. È ciò che ti salva quando la serietà rischia di diventare pomposa o quando il dolore minaccia di schiacciarti. Nell’ironia c’è una distanza gentile, un’intelligenza emotiva che permette di guardare le cose da un’angolazione imprevista, spesso rivelatrice.
Anche nella poesia, l’ironia è fondamentale. Non per sdrammatizzare, ma per disarmare: toglie solennità, apre fessure nel linguaggio, scardina il prevedibile. Ti coglie di sorpresa, sì, ma con garbo. Scrivere con ironia, per me, è un modo per tenere insieme il dolore e il sorriso, senza tradire né l’uno né l’altro.

L’autrice:
Monica Messa ha esordito nel 2018 con “Poesiole”, una raccolta di poesie su vari temi, scritte nell’arco di trent’anni. Ha poi pubblicato “Seppie Ripiene – Poesie per poche lire” (2018) e “Il Logorio della vita moderna” (2021).
Ha partecipato a diversi Festival. Alcune poesie sono state pubblicate in blog, riviste cartacee e online, in antologie nazionali e internazionali.
È stata nella redazione della rivista di poesia “La Vallisa” e “La Confraternita Letteraria”. Alcune poesie sono state tradotte in albanese e in spagnolo. Cura, inoltre, un blog e una Pagina Facebook.

(Monica Messa “Una Pistola al Luna Park” pp. 96, 14 euro, Edizioni RP Libri 2024)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.